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RUVIDA, GESTUALE, LIRICA. LA MUSICA DIPINTA DA ANDREA CANTIERI

 

Alessandra  Redaelli

 

Andrea Cantieri è un artista potente.  Si avventa sulla tela – o sui supporti che volta per volta sceglie per i suoi ritratti – con la passione istintiva e con il trasporto che mette nella musica. Tutto il suo lavoro è sintesi, fusione, gioco di contrappunti. Tra la musica e l’arte figurativa, certo, e poi tra la pittura e la scultura – con giochi materici, inserti e rilievi che trasfondono una nell’altra e viceversa – e ancora tra figurazione e astratto.

Realizzati con una frenesia gestuale vicina per certi versi all’action painting di Jackson Pollock, i suoi ritratti sono il risultato di battaglie aspre, all’ultimo sangue, tra il creatore e la sua creatura. La tela è grande, immensa, l’artista l’affronta di petto, salendo in piedi a una sedia per non farsi sovrastare, per non lasciarsi soggiogare. Il gesto è veloce, furioso, senza tentennamenti. E’ spatolata, graffio, unghiata, colpo, ferita. Pare impossibile che su quelle dimensioni si riesca a gestire l’equilibrio timbrico di un ritratto, la somiglianza, la credibilità dell’espressione. Eppure Cantieri ci riesce. Quelli che da vicino potevano apparire come i segni di una lotta, il canto puramente astratto di un’emozione, dopo due passi indietro rivelano il miracolo del volto. I grumi di materia incisi dalle setole del pennello, le lame di colore, le strisce di luce, gli sgocciolamenti diventano sguardo, viso, bocca spalancata nel canto, talvolta anche strumento musicale, così fuso nel corpo da apparire come una sua parte viva, pulsante e inscindibile dal resto.

I grandi del jazz – da Louis Armstrong a Miles Davis e B.B. King – e poi John Lennon, Neil Young, Jimi Hendrix, Mick Jagger, Kurt Kobain emergono dal bianco dello sfondo come visioni. Volti sofferti, crudi, contratti in una smorfia che potrebbe essere al tempo stesso estasi o agonia. Pochi colori: bianco per lo sfondo e poi nero, oppure rosso sangue, o al massimo un blu, per ridurre al minimo qualunque distrazione che possa minare la purezza della visione (verrebbe da dire dell’ascolto…).

Sfrenato, istintivo e sperimentatore, Cantieri non si accontenta della tela o della tavola. Si cimenta su superfici irregolari, spezzate, come i bancali in legno grezzo o gli avvolgibili per le finestre, ribaltando l’ostacolo della forma in un’ulteriore spiazzante stimolo visivo. Dalla superficie scabra e frammentata l’immagine esce ulteriormente scomposta, e l’occhio è costretto, per ricomporla, a compiere ancora un passo in più, irrimediabilmente sedotto e conquistato. E poi ci sono i dipinti su giradischi, dipinti-sculture dove il vinile diventa base per il ritratto mentre il resto dell’oggetto si ammanta di un bianco calcinato.

Se i dipinti – siano essi su tavola, tela o su supporti originali – si muovono in una direzione che sta a metà tra l’espressionismo astratto e il gestuale, le sculture possiedono una vena squisitamente metafisica. Di un bianco assoluto, pulitissimo e di sapore vagamente sacrale, sono strumenti musicali spezzati e poi ricomposti a creare inediti giochi di spazi, contrappunti di vuoti e di pieni. Oppure, con un senso della poesia degno di Magritte, raccontano il Cammino del Jazzista come un paio si scarpe appoggiate su un gigantesco copertone. Il tutto di un candore struggente e spettrale.

 

ROUGH, GESTURAL, LYRICAL. THE MUSIC WAS PAINTED BY ANDREA CANTIERI

 

Alessandra  Redaelli

 

Andrea Cantieri is a powerful artist. Si pounced on the canvas - or media which in turn will choose for his portraits - with passion and instinctive with the transport that brings in music. All his work is a synthesis, fusion, game counterpoints. Between the music and the arts, of course, and then between painting and sculpture - with games textured inserts and reliefs that transfused into each other and vice versa - and again between figurative and abstract.

Made with a gestural frenzy in some ways closer to action painting of Jackson Pollock, his portraits are the result of fierce battles, the last man between the creator and his creature. The canvas is large, immense, the artist tackles, climbing up a chair and not to drown, not to be enslaved. The action is fast, furious, without hesitation. And 'spatulate, scratch, scratch, hit, hit. It seems impossible that the size of you will be able to handle the tonal balance of a portrait, the likeness, the credibility of the expression. Yet we can Shipyards. Those who could appear as closely for signs of a struggle, singing purely abstract emotion, after two steps back reveal the miracle of the face. The lumps of matter engraved bristles of the brush, the blades of color, the stripes of light, becoming dripping eyes, face, mouth open in song, sometimes even musical instrument, so time to appear in the body as a living part, button and inseparable from the rest.

The jazz greats - from Louis Armstrong to Miles Davis and BB King - and then John Lennon, Neil Young, Jimi Hendrix, Mick Jagger, Kurt Kobain emerge from the white background as visions. Faces suffered, raw, contracts in a grimace that might be both ecstasy or agony. Few colors: white for the background and then black, or red blood, or at most a blue, to minimize any distraction that could undermine the purity of vision (one might say ... listening).

Wild, instinctive and experimenter, not content Shipyards of the canvas or board. He ventured on uneven surfaces, broken, unfinished wood such as pallets or blinds for the windows, overturning the obstacle of the form in another disorienting visual stimuli. From the rough surface and the image comes out fragmented further decomposed, and the eye is forced to reassemble, to make even one step further, hopelessly seduced and conquered. And then there are the paintings on the turntable, vinyl paintings-sculptures which becomes the basis for the portrait and the rest of the object is cloaked in a white calcined.

If the paintings - whether on wood, canvas or the original media - is moving in a direction which is halfway between abstract expressionism and the gestural, the sculptures have a purely metaphysical vein. A pure white, very clean and vaguely sacred, musical instruments are broken and then reassembled to create unusual plays of space, empty and full of counterpoints. Or, with a sense of poetry worthy of Magritte, tell the Way is like a pair of Jazzman shoes resting on a giant tire. All of a longing and ghostly white.

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